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ESSERE UNO SHOWRUNNER (PARTE SESTA)

Di che cosa si parla nella sesta parte : showrunner e writer’s room; il rapporto studio-showrunner e le “note”.

La confusione è un elemento che regna nel mondo dello spettacolo: dall’editoria alla musica, dal cinema alle serie televisive.

È vero che fino all’avvento di Napster nel 1999 e degli altri canali peer-to-peer, anìme della manga pirateria, le grandi etichette musicali, le major cinematografiche, i canali televisivi e i grandi editori dormivano sonni tranquilli, ma, in seguito, le sfide per i Big Kahuna dello spettacolo sono diventate complicate generando confusioni.

I cosiddetti “auto-distribuiti”, coloro che il mondo degli Intoccabili – le major, i grandi editori, le etichette, insomma, il mondo che aveva messo non barriere ma porte indistruttibili d’entrata – ha sempre considerato un problema marginale, hanno sfiancato le regine ed i re dell’intrattenimento fino a superarli in tutti i settori. Johanne Kathleen Rowling, la creatrice del Blockbuster Harry Potter è la dea dell’auto-distribuzione.

Visto che decine di colossi della carta stampata l’avevano snobbata, Rowling ha deciso di pubblicare il suo e-book su Kindle di Amazon arrivando a vendere milioni di copie e acquisendo, ella stessa, il potere contrattuale per mettere in ginocchio i re della produzione e della distribuzione (prima era l’esatto contrario visto che erano le grandi aziende a tenere sotto scacco gli autori, i creativi). Una curiosità su Rowling: Amazon, che è riuscito a piegare chiunque, non ha piegato la scrittrice: recandomi sul sito di Bezos & Co. ho scoperto, evviva!, che non puoi acquistare direttamente dalla piattaforma, almeno fino all’anno scorso – oggi forse le cose son cambiate essendo oramai libri, per usare un eufemismo, “vecchi” – ma finisci sul sito https://www.harrypotterplatform934.com/ gestito direttamente da Rowland.

Oggi chiunque può avere la fortuna della Signora del Bestseller? Saper scrivere, dirigere un film o fare un brano musicale di successo, scrivere un bestseller, non è proprio cosa da tutti, ma, in questo momento, il mercato è davvero aperto e globale.

Ebbene, in questa sconfinata prateria, ecco che la figura dello showrunner viene in aiuto mettendo in ordine le carte che erano state sparigliate, portando ordine alla confusione di cui si accennava all’inizio.

Questa figura ha il compito di supervisionare l’intera serie, dalla fase di pre-produzione a quella di post-produzione e via all’inseguimento della distribuzione e dei rapporti con tutte le realtà del mondo seriale (oggi, in realtà, dopo aver letto gli articoli sul blog, in molti mi scrivono per capire come adottare questa figura anche nel settore della musica e dell’editoria. È molto facile, credetemi e posso dimostrarvelo in seguito; per ora, accontentatevi di vedere come funziona nell’ambito del mondo televisivo e nell’etere).

Uno showrunner è, innanzi tutto, il capo della serie e, di conseguenza, di tutti gli sceneggiatori, poiché, comunque, a lui spetta l’ultima parola su tutto.

Che cosa succede nella writer’s room, la stanza degli sceneggiatori?

Tutti noi sceneggiatori (ripeto, lo showrunner è in primis uno sceneggiatore) vorremmo essere come i personaggi che interpretano tale mestiere nell’ottima serie televisiva “Boris” dove, nello scrivere un dialogo o sviluppare un personaggio, i simpatici mattacchioni se ne stanno su uno yacht al sole abbronzante di qualche isola caraibica.

In  realtà la writer’s room è un po’più articolata e, a volte, pur cercando di creare armonia e sinergia, lo showrunner deve capire i caratteri e le menti di cui a disposizione.

In Giordania, per la serie televisiva Netflix, “Jinn”, ho avuto a che fare con le giovani protagoniste, ognuna gentile e simpatica, con caratteri completamente diversi, ma umili e collaborative. Il compito è stato facile.

Per “Senza Perdere Mai Un Giorno”, il documentario della serie tv omonima, andato in onda su LaEffe, dovevo gestire, oltre le circa settecento persone del cast (fra Calabria, Liguria, Piemonte, Lazio, Campania e Friuli Venezia Giulia), caratteri difficili, prime star, stampa, network, mass media in generale, etnie, istituzioni, contrasti interni e religioni (sic!). Il compito non fu facile, ma, è proprio questo il mestiere dello showrunner: mettere a proprio agio le persone, dare loro forza e farle sentire tranquille, tutte importanti, fare, insomma, da padre di famiglia come si usa dire nel diritto pubblico e civile.

Uno showrunner ha delle preferenze? Sì. Non si può lasciare agli altri il timone, perché, anche un pugno di mani su di esso, governato da teste diverse, rischierebbe di portare la nave alla deriva. E la deriva è davvero difficile da gestire. Si può, certo, ma, come Robinson Crusoe, il personaggio uscito nel 1719 dalla penna di Daniel Defoe, si rischia perdite di tempo e incidenti di percorso e il tempo è denaro. E non sempre Venerdì – il personaggio che Crusoe incontra nell’isola – sarà la bella attrice Zeudi Araya (come nella trasposizione del romanzo in chiave comica nel divertente film diretto da Sergio Corbucci nel 1976 “Il Signor Robinson, mostruosa storia d’amore e di avventure”).

La porta s’è aperta sulla writer`s room.

In che posto ci troviamo? Nel Belpaese? No, siamo in America, in Germania, in Spagna, in Francia, in Cina, in Giappone, in Scandinavia, in Israele, nel Regno Unito, insomma, in quei luoghi dove le serie funzionano davvero e dove l’ingrediente fondamentale è lo scrittore, lo sceneggiatore. Questi crea, decripta lo stile, il ritmo, il colore per portare al successo artistico e commerciale una serie televisiva (lo showrunner, per ora, è una figura legata esclusivamente alla serialità televisiva. Per ora, nds).

Aperta finalmente la porta, s’inizia a respirare una buona aria, sebbene qualcuno ieri non sia riuscito a farsi la doccia. Una bella spremuta di meningi ed ecco che le idee escono fuori, rimbalzano nella stanza, colpiscono gli stomaci, girano nelle teste e patapum! – il foglio, prima bianco o, per i non amanuensi, la schermata bianca del portatile, ora ha delle macchie nere che somigliano a parole.

Gli sceneggiatori, guidati dal loro capo (Head of Writer’s Room, nds), in seguito alle linee guida trasmesse dallo showrunner al capo e da questi agli astanti, hanno iniziato a produrre idee e scriverle.

Le menti s’intersecano e ognuno fa il proprio lavoro: gli sceneggiatori abbozzano l’esoscheletro, i dialoghisti iniziano a far parlare i personaggi, gli editor controllano la sintassi e gli altri aspetti di loro competenza (ritorneremo sui compiti di tutti nel prossimo post dove si parlerà delle parole legate alle serie televisive).

Per capire bene come funziona questa stanza, credo sia interessante conoscere un po’di cose. In primis, una storia che prende vita nel XIV secolo: l’arte nipponica del teatro ; in secundis il Signore del Noir e del Delitto, Raymond Chandler e, postrema autem non minimus, la manipolazione dei dati e la loro potenzialità in un mercato data driven.

La storia del teatro affonda, come detto, le sue radici nel lontano 1300 e si basa sul fatto che, nei temi buddhisti, non si cercava più l’elemento legato all’esegesi teologica, bensì, dei pretesti per il piacere estetico: “l’attore è un fiore” ci spiega il maestro incontrastato di questa arte, Zeami Motokiyo, attore e drammaturgo detto anche Kanze Motokiyo, vissuto in Giappone dal 1363 al 1443 circa.

Estetica. Che cos’è una serie televisiva? Estetica. Estetica della parola, del dialogo, dell’immagine, della scenografia, del costume, del dietro le quinte, dei divi. I giapponesi lo avevano capito mezzo millennio prima per ciò che riguarda questa caratteristica.

La scena di uno spettacolo viene studiata nei minimi particolari: è sopraelevata di un metro circa dal suolo, presenta due parti ben distinte: da un lato il palcoscenico, butai, un quadrato di tre ken (un ken è circa 1,80 metri) che termina in uno spazio di un ken per tre occupato dai musicisti e, dietro loro, contro la parete di fondo, si trovano i kōken, i sorveglianti, coloro che assicurano il buon andamento dello spettacolo e, dal lato opposto, da un ponte, hashigakari, sulla sinistra, di solito di lunghezza pari a tre volte quella del palcoscenico. Entrambe le strutture hanno un tetto. Alle estremità del ponte vi sono le gakuya, le quinte, separate sia dal ponte stesso che dal palcoscenico da una parete di legno. Sul palcoscenico, quattro pilastri sorreggono il tetto e servono, inoltre, da punto di riferimento al danzatore che, indossando la maschera, vede poco. Ghiaia, “richiami del piede”, dipinti di bambù, scale per gli attori ed il coro e altri personaggi, tre pini piantati a intervalli regolari e altri ornamenti seguono la perfezione della scena.

Gli spettatori sono di fronte al palcoscenico e alla sua sinistra, davanti al ponte, ma sempre rivolti in direzione del palcoscenico.

In scena entra per prima l’orchestra (che, tra l’altro, è l’ultima ad uscire, nds): i musicisti entrano dal ponte sollevando di poco il sipario. Il primo ad arrivare è il suonatore di flauto che si siede per terra, ai piedi del “pilastro del flauto”, poi entrano i tsutsumi, due tamburi, il “grande tamburo”, ō-zutsumi, il “piccolo tamburo”, ko-zutsumi, infine il quarto strumento, un altro tamburo battuto da un musicista con due particolari bacchette.

Vi ricordo che siamo in una writer`s room sebbene si stia parlando di un’arte di mezzo millennio fa. Non abbiate paura, non disperdete la vostra attenzione; la storia ha sempre il suo fascino e aiuta a raccapezzarsi in vari mondi – “Qualsiasi evento storico, per quanto nefasto possa essere, è sempre posto su di una via che porta al positivo, ha sempre un significato costruttivo” affermava Sant’Agostino mentre gli echi di Cicerone scolpivano l’aria di Formia con le meravigliose parole “La storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoriamaestra di vita, annunciatrice dei tempi antichi” e Malcolm X diceva “La storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore”.

L’orchestra non esegue una mera musica di accompagnamento, ma emette dei gridi che attirano l’attenzione dello spettatore: paralleli divertenti e irrispettosi, presi dal regno animale che agguantano la mente dell’ascoltatore grazie a questo voluto simbolismo incantatore.

L’orchestra entra in scena per tre motivi: l’ingresso dell’attore e il suo ritorno ad inizio della seconda parte; per sostenere il canto dell’attore o del coro nei passi lirici; indine, per ritmare la danza o per accompagnare un racconto del coro mimato dall’attore.

È un ritmo spezzato, incantatorio, magico che crea, volutamente, nello spettatore un diverso stato mentale, una vera e propria trance-esperienza.

Insieme all’orchestra entrano, dalla porticina sul fondo, gli attori che compongono il coro, il quale, non partecipa all’azione e che è composto da quattro, otto o dodici cantanti, seduti, immobili, sulla destra del palcoscenico, per tutta la durata dello spettacolo. Essi cantano all’unisono alternandosi all’attore principale quando questi mima un lungo racconto o commentano le azioni di un personaggio o, infine, descrivono un paesaggio.

Orchestra e coro costituiscono uno sfondo davanti al quale l’attore recita e sono di immenso valore decorativo da non trascurare

Il personaggio è uno solo ma gli attori che lo impersonano possono arrivare ad una dozzina. Lo shite è colui che fa, che agisce, il personaggio chiave, colui che ha la parte più complessa e che si muove sul palcoscenico, sul ponte e su tutta la scena e che veste un abito sontuoso per attirare lo sguardo e fissare l’attenzione. Poi vi è il waki, il laterale, secondario, spesso un monaco in abiti dai colori spenti. Waki e shite possono essere seguiti da un compagno o da un accompagnatore che rafforzano, con la loro voce, la parte del capofila o di dargli la replica.

Solo lo shite danza e mima, il waki agisce per provocare un’azione del primo, eppure, senza di lui, senza un suo gesto o una sua parola, provoca la venuta dello shite. È davvero il waki il medium tra l’apparizione dello spirito con cui ha inizio lo spettacolo e il pubblico.

Lo shite, infatti, altro non è che un’apparizione dello waki.

Il può essere un jeu au massacre poiché può durare anche molti giorni e mettere il pubblico a dura prova. Per mitigare la situazione intervengono i kyōgen, comici che recitano una farsa, grossolana e meno intellettuale, un intermezzo che dà allo shite il tempo di cambiare costume e al pubblico una pausa dall’estenuante prova mentale che rappresenta il teatro .

Questa storia tenetela lì: è la nostra prima metafora – “Tutti i termini filosofici sono metafore, analogie, per così dire congelate, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia riportata al contesto d’origine, certo presente in modo vivido e intenso alla mente del primo filosofo che la impiegò” Hannah Arendt spiega.

“L’uomo col vestito blu cenere (che non sembrava color blu cenere alle luci del Club Bolivar) era alto, con occhi agili distanti, naso sottile, mascelle quadrate. Aveva capelli ricci e neri, con una sfumatura di grigio leggera, quasi applicata da una mano incerta; ed una bocca piuttosto delicata. I vestiti gli si attagliavano come se avessero un’anima loro, e non soltanto un passato dubbio. Si chiamava Mallory. In una mano, tra le dita forti e ben fatte, teneva una sigaretta. Si appoggiò completamente con l’altra mano sulla tovaglia bianca e disse: “Le lettere vi costeranno dieci biglietti da mille, signorina Farr. E non è troppo.” Guardò per un’istante la ragazza davanti a sé; poi guardò, oltre i tavoli vuoti, la pedana centrale, dove le ballerine si muovevano al variare delle luci colorate. I clienti s’affollavano talmente intorno alla pedana, che i camerieri, tutti sudati, dovevano tenersi in equilibrio come funamboli per riuscire a passare tra i tavoli. Ma vicino al luogo dove stava seduto Mallory erano soltanto quattro persone. Una bruna slanciata beveva qualcosa a un tavolo, davanti a un uomo il cui collo, grasso e rosso, luccicava di peluria madida di sudore. La donna guardava accigliata il proprio bicchiere, e si trastullava con una grossa fiaschetta d’argento che teneva in grembo. Un po’più in là due uomini seri e annoiati fumavano sigarette lunghe e sottili, senza parlare”.

Il romanzo continua con una descrizione dettagliata della signorina Farr e del rapporto con Mallory. “I ricattatori non sparano” è un racconto di Raymond Chandler del 1933 uscito singolarmente e poi nel monumentale doppio volume intitolato “La Semplice Arte del Delitto” del quale posseggo una splendida versione della collana Gialli della Garzanti datata 1962 come Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, uno dei suoi immensi capolavori con valenza cine-televisiva zeppa di ogni cosa che farebbe gola a qualsiasi showrunner e, di conseguenza, sceneggiatore (siamo nella writer`s room, ricordatelo, dove lo showrunner sta riportando esempi).

Nella prefazione al volume in mio possesso colpiscono alcune frasi di Chandler. Mettiamolo in ordine.

“Un vero scrittore di libri polizieschi (ce ne sarà pur qualcuno, in fin dei conti, non vipare?) non deve gareggiare solo con i morti insepolti ma anche con le orde dei vivi”.

“Il delitto che può procurare i più seri grattacapi è quello  su cui qualcuno ci ha pensato sì e no due minuti, prima di compierlo”.

La terza storia riguarda una realtà dei nostri giorni ed è la gestione, conoscenza specifica e manipolazione dei dati in possesso di Netflix, Amazon, Google/YouTube, Apple, Alibaba, Spotify, Instagram, Twitter, Facebook ed altre, ovvero, le principali aziende data oriented (stile decisionale basato sui dati con l’uso dell’econometria e dell’economia oltre che del marketing e dello Strateging Making Decision – SMD), data driven – con dentro data cruncher –, venditori bundle, proprietarie di dati, piattaforme a “coda lunga”, customer loyalty oriented ed altri enormi vantaggi di barriere all’entrata ed economie di scala sicure e esponenzialmente redditizie.

Riapriamo le porte della nostra stanza degli sceneggiatori ed analizziamo attentamente le tre storie trovando affinità con il mestiere dello showrunner e degli sceneggiatori, nonché dialoghisti, sviluppatori, scalettisti, addetti alla stesura del trattamento, soggettisti e tutti coloro seduti intorno al tavolo della “stanza delle meraviglie”.

Ebbene, dalle parole della nostra prima storia, quella relativa al teatro giapponese si possono evincere quattro strategie fondamentali che anche lo showrunner dovrà applicare, insieme al capo degli sceneggiatori, per poter far funzionare la writer`s room:

  1. Ogni cosa, ogni decisione, ogni parola devono essere studiati nei minimi particolari al fine di ottenere la massima qualità, efficacia ed efficienza da ogni singola persona: è il caso della routinaria e minuziosa creazione del palcoscenico, del ponte e della posizione del pubblico. Tutto ad hoc sebbene tenendo presente il gusto di chi è il re, il cliente, lo spettatore.
  2. Chiunque potrà dire la sua poiché tutti sono importanti, ma secondo la loro competenza e il lavoro loro assegnato: è il discorso del monaco e dello shite, l’attore principale dove entrambi sono importanti ma è il secondo ad avere la parte principale, sebbene, lo si veda, senza il monaco, il waki, il primo non potrebbe cominciare la sua storia e la sua recitazione. Insomma, sono lo showrunner e il capo sceneggiatore a dirigere l’orchestra, ma, non puoi dirigere un’orchestra senza persone e di soli strumenti musicali a meno che non sei in un cartone animato.
  3. Gli editor rivestono un ruolo fondamentale poiché consentono agli sceneggiatori di poter buttare giù l’idea, magari anche grossolanamente, ma d’imprimerla su un foglio o su una pagina di un portatile o di un sistema di scrittura, invece di perderla e poi correggerla e migliorarla per essere passata alle note dello showrunner insieme al capo sceneggiatore. In questo modo, il lavoro sarà scremato e già fruibile a questi. È la veste che hanno nel teatro giapponese i kyōgen e l’orchestra.

Quindi, ecco che cosa avviene in una stanza di scrittura riassunto a blocchi per poter focalizzare meglio la dinamica d’azione.

  • Ogni sceneggiatura necessita di un ideatore, o, in gergo, un creatore d’idee: lo showrunner. Questi presenta una Short Bible – come ho definito qualche anno fa ad una lezione all’Università di Bologna in una sede distaccata presso una libreria davanti a decine di studenti, definizione ribadita poi alla Genova Liguria Film Commission e per la presentazione presso la sala del comune di Genova a Palazzo Tursi di un mio docu-fiction passato poi sulla televisione generalista LaF – ossia un documento che presenta i seguenti strumenti:
    1. due schede di sintesi contenenti dati generali, fasce di età, televisioni/piattaforme proposte, orario suggerito, indicazioni tecniche (regia, sviluppatori, soggettisti, altro), numero di stagioni iniziali;
    2. la logline dell’intera serie (il trafiletto che trovate sui principali quotidiano o settimanali cinematografico-televisivi-musciali-editoriali dove, in poche righe, da tre a sei per un singolo episodio e fino alla mezza pagina per la descrizione dell’intera serie, ipse dixit) comprensiva di serie televisive o film affini e di quelle simili per tono e genere;
  • il genere e il tono della serie, appunto, cioè se drammatico o comico, se horror o fantasy o se multi-genere (specificare quali, consiglio) e dove si vuole andare a parare, la mitologia della serie, l’ambientazione, il come verrà raccontata ed il tema o temi principali;
  1. l’elevator pitch – una presentazione scritta o orale della nostra serie: occorre prepararlo con estrema attenzione come si è discusso nella parte quarta;
  2. il franchise della serie, vale a dire la scelta dell’argomento (a volte possono essere più di uno, ma, di solito, sono da esso derivati). A mero titolo esemplificativo: un poliziotto che è allo stesso modo un serial killer che agisce sostituendosi ad una giustizia carente (“Dexter” – Showtime, 2006-2013, creatore James manos, Jr, nds); un professore universitario trova un modo per fare più soldi vendendo metanfetamina (“Breaking Bad” – AMC, 2008-2013, ideata da Vince Gilligam); due diciassettenni, stanchi della monotonia decidono di scappare insieme per sfuggire dagli schemi (“The end of the F***ing World” – Channel 4 a All 4, 2017-2019, ideata da Jonathan Entwistle). Si evince il marchio di fabbrica, il succo della situazione, certo e indubitabile: manca la giustizia e Dexter se ne fa carico; la paga da professore è scarsa? Perché non darsi al crimine quando questo offre strade spianate?; la scuola fa schifo? I genitori non ti capiscono? ‘fanculo tutti, posso fare quello che voglio.
  3. La mission, il o i motivi per cui si sceglie di fare una serie: possono essere diverse e personali. Rispondere a domande del tipo: quale serie funziona di più? Che tipo di protagonisti hanno? Quale genere? Chi la vedrà? Perché? Qual è il discorso sociale, politico, religioso, filosofico che può aiutare? Sono solo alcune semplici domande, ma, in realtà, meglio porsene a migliaia come è uso fare nelle preparazioni e che io chiamo One choice is forever.
  • La Sinossi dell’intera serie per spiegare di che cosa parla stagione per stagione e globalmente. La sinossi è la presentazione, la chance per agganciare il produttore, il distributore e lo spettatore, che costringe a spalancare il coperchio per soddisfare la propria curiosità.
  • L’outline: scrivere l’outline dell’episodio. L’outline consiste semplicemente nel trasformare gli appunti sul muro in scene dettagliate su carta, scritte in un linguaggio televisivo appropriato, ma senza dialoghi. L’outline va allo showrunner, al produttore esecutivo, ai dirigenti del network.
  1. L’elenco dei personaggi suddiviso tra principali, ricorrenti, secondari e comparse.
  2. Le logline dei singoli episodi.
  3. I Soggetti di tutte le stagioni previste (almeno tre).
  • Le linee orizzontali e verticali (storie A e storie B), ne abbiamo parlato nella parte 2 e 3.
  • Le altre aree di probabile interesse (esempio: i luoghi di una città, i millennials, le vittime, i carnefici, a chacun son paradis).
  • L’arco mitologico di tutte le stagioni: una serie di domande riguardanti i personaggi principali ma anche i recurring e i secondari: esempio che farà Walter White (protagonista di “Breaking Bad”, s.c.) per affrontare le minacce sempre più pressanti dei cartelli della droga? Come reagirà? Come lo giudica sua moglie? E i suoi amici? Come andrà a finire; riuscirà a rimanere vivo?
  1. A fianco del punto precedente le risposte ad alcune e non tutte le domande sopra citate che io chiamo “Come i casi si risolvono”.
  • Diritti d’autore: si consiglia il Copyright del governo USA e la Siae italiana.
  • Con queste informazioni in mano, il capo sceneggiatore (che spesso partecipa anche alla stesura della short Bible) ha in mano tutto ciò che gli occorre per iniziare a sviluppare le storie e la sceneggiatura dell’episodio numero uno (o pilota, per certi canali). I dialoghisti, i ricercatori storici, i ricercatori dell’etere, gli sceneggiatori veri e propri e tutte le altre figure della stanza si mettono ora al lavoro per la parte creativa creando una prima bozza di sceneggiatura in un tempo che oramai è assolutamente incalcolabile (una volta se si lavorava per i canali generalisti variava dalla settimana alle tre settimane per episodio, ma, oggi, con piattaforme come Netflix o Amazon Prime o Starz (Apple TV) i tempi possono accorciarsi drasticamente o dilatarsi a seconda delle decisioni dei e del CEO di creare subito l’intera serie o di farne solo una puntata di prova).
  • Il primo eleborato passa nelle mani del capo sceneggiatore e dell’editor che rivedono accuratamente quanto prodotto.
  • Le figure di cui al punto 3 passano l’elaborato allo showrunner che appone le prime note e, cioè, qualsiasi cosa che, tassativamente e indiscutibilmente, deve essere variata: un dialogo troppo lungo/corto, una descrizione di un personaggio poco rassicurante, una mal comprensione sul contenuto (la serie è per Netflix, non per il Canale di Rdio Maria, ad esempio), ecc.
  • Ritorno nelle mani del capo sceneggiatore e editor che fanno notare alla stanza le note e preparano una seconda stesura con lo staff.
  • Ritorno allo showrunner per eventuali note e, appena tutto è a posto, viene fatta una stesura definitiva con programma mirato e stampata dalle cinque alle tot copie a seconda della quantità di persone con cui lo showrunner dovrà fare la presentazione.
  • Arrivano le note degli studios, delle piattaforme e dei produttori: eventualmente tenersi pronti per ulteriore stesura. Nessuno ti dice subito che fare, caro sceneggiatore.

Non esiste una regola perfetta, uno sceneggiatore perfetto o uno showrunner infallibile. Dovete tenerne conto.

Sicuramente, ecco la seconda storia che ci viene in aiuto, Raymond Chandler ci fa capire che più siamo minuziosi nella descrizione dei dettagli senza mai essere didascalici e migliore sarà il risultato.

Da Chandler s’imparano tre cose:

  • La descrizione degli ambienti
  • La descrizione dei personaggi
  • L’aria che si respira e la semplicità che aiuta a rendere un libro o una serie comprensibile da tutti e, di conseguenza, di enorme successo

Tre ingredienti immancabili e insostituibili.

La terza storia aiuta in questi aspetti:

  • Il mondo seriale è cambiato: nuovi competitors, nuove forme di scrittura e di girato, nuove tecnologie, nuove possibilità di espansione, globalizzazione, maggiore importanza ai creatori, peso spostatosi dalle major alle piattaforme grazie all’utilizzo e all’orientamento dei dati che consentono di conoscere ogni pensiero del consumatore ancor prima che questi lo possa pensare devono far lavorare la writer`s room in quest’ottica e in questo scenario, pur tenendo conto di fattori come la pubblicità nei canali cable o generalisti che cambiano la struttura degli atti, l’uso degli hook e dei cliffhanger (inutili per Netflix, YouTube, Amazon Prime, ecc.).
  • Fare tesoro nella metodologia di scrittura di tutte le parole usate sopra: data driven – customer loyalty – data oriented – data cruncher – SMD il che vuol dire considerare per chi si sta lavorando. Le serie devono, ad esempio, essere scritte come serie a coda lunga? Vale a dire quelle serie che sembravano morte ma che invece le piattaforme hanno ripreso, riportato in auge facendole riscoprire e, magari, ripreso con nuove stagioni. Si vuol dire: ogni idea non va mai sottovalutata.

Di che cosa si parlerà nella settima parte: teaser, trailer e tutte le parole delle serie tv ad uso dello showrunner.

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ESSERE UNO SHOWRUNNER (PARTE QUINTA)

Di che cosa si parla in questa parte : lo spec script.

Oggi lo showrunner ha dei compiti sempre più interessanti e delle sfide da affrontare che il semplice produttore esecutivo non aveva.

Intanto, lo showrunner non è il produttore esecutivo né il semplice creatore di idee, ma è una figura che ha esperienza in tutti i settori del cinema.

Un produttore esecutivo è più una figura onorifica, un marchio, un brand. Certo, si può occupare della parte creativa ed organizzativa, ma, come figura televisiva, è colui che dà lustro alla serie televisiva.

Lo showrunner, per ribadirlo, è davvero colui che rappresenta la serie: s’identifica con essa, una fusione inscindibile.

Preparare una spec script con la sua writer`s room è molto importante. Questo, insieme al pitch (vedi “Essere uno showrunner – parte quarta nel presente blog), alla Bibbia e al trailer e/o teaser sono documenti fondamentali per creare il cosiddetto buzz, il rumore e l’interesse suscitati nei media di un prodotto audiovisivo.

La spec script  è stato definito: “un tipo di sceneggiatura, scritto su base speculativa, senza alcuna garanzia di profitto, nella speranza di venderlo a uno studio o produttore”. Corretto, certo, ma, uno scopo di una spec script, nota anche come sceneggiatura di vendita, è mostrare il talento di uno sceneggiatore nel raccontare una storia attraverso l’azione e il dialogo. Inoltre, è sempre di più utilizzata da sceneggiatori sconosciuti che cercano di dimostrare la loro capacità narrativa e farsi un nome nell’industria cinematografica. Quindi, dal punto di vista dello showrunner, la spec script potrebbe essere utilizzata come test d’ingresso per un nuovo sceneggiatore da inserire, eventualmente, nella propria writer`s room (in seguito spiegheremo di che cosa si tratta).

Archivio

Il cinema come archivio

Jacques Derrida: “Non esiste potere politico senza il controllo dell’archivio, se non della memoria. Una democratizzazione effettiva può sempre essere misurata da un criterio essenziale: la partecipazione nell’accesso all’archivio, la sua costituzione, e la sua interpretazione”

Da queste parole si capiscono tre cose fondamentali:

  1. Una Nazione è davvero tale quando ha in seno un archivio in qualsiasi campo della propria vita: un archivio storico, cinematografico, teatrale, artistico, catastale e via dicendo.
  2. Una volta sia questo archivio –  che io chiamo “Polivalente-Includente” e cioè che ricostruisca per filo e per segno ogni settore di una Nazione (cito, a mero titolo esemplificativo: economico, politico, storico, cinematografico, tecnologico, industriale e così via) – esistente e consultabile democraticamente, occorre che non sia falsato da forze politiche, religiose, dittatoriali e quanto sia generatore di “la storia del vincitore” e che sia interpretabile da tutti una volta se ne sia sancita la sua costituzione.
  3. La forza dell’archivio permette di capire, per quelle nazioni colonizzate, quanto i colonizzatori hanno loro nascosto, sottratto, modificato, traslato e distrutto, ricostruendone, di conseguenza, la loro forza indigena e nativa. Spesso, infatti, i poteri coloniali cancellano ogni traccia o bloccano sul nascere i tentativi di istituire gli archivi.

Questa analisi, affatto perniciosa come invece è l’occultamento, permette di scoprire la realtà, nel nostro caso cinematografica e televisiva, di popoli come quello messicano, filippino, thailandese, malese e anche il nostro che subì e ancora subisce i tagli della censura per ammutolire il pensiero libero che questa arte dovrebbe avere ipso iure.